René Magritte: perché nessuno può fumare la sua pipa

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René Magritte: perché nessuno può fumare la sua pipa

Il “sabotatore silenzioso” che ha “visto il pensiero” e che ha cambiato per sempre il nostro modo di guardare una bombetta, una mela e una pipa. Da “Romeo e Giulietta” agli emoji, passando per Borges, De Chirico, la cultura musicale pop e il cartone animato Willy il Coyote; per capire e celebrare il genio surrealista.

Dovendo scrivere un articolo su una delle voci più alte ed enigmatiche della pittura surrealista del nostro tempo, quale serie di fatti scegliereste?
Come rendere conto di un artista straordinario in poche pagine, e in una rapida filza di parole?

“Questo non è Magritte”, verrà detto senz’altro, con quella eloquenza d’accatto, e ormai trita, rubata ad una delle sue più famose opere.
Ma non lo sarebbe in nessun caso.

Rene Magritte il figlio dell'uomo Son of Man
Rene Magritte, Son of Man, (il figlio dell’uomo), olio su tela 116×89 cm, 1964. Collezione Privata.

 “Wilde attribuisce il seguente scherzo a Carlyle: una biografia di Michelangelo che omettesse qualsiasi menzione delle opere di Michelangelo.
Tanto complessa è la realtà, così frammentaria e semplificata la storia, che un osservatore onniscente, potrebbe redigere un numero indefinito, e quasi infinito, di biografie di un uomo, che mettessero in luce fatti indipendenti e delle quali dovremmo leggere molte prima di capire che il protagonista è il medesimo.
Semplifichiamo straordinariamente una vita; immaginiamo che la formino tredicimila fatti.
Una delle ipotetiche biografie registrerebbe la serie 11, 22, 33…; un’altra, la serie 9, 13, 17, 21…; un’altra la serie 3, 12, 21, 30, 39… Non è inconcepibile una storia dei sogni di un uomo; un’altra, degli organi del suo corpo; un’altra, degli inganni che ha perpetrati; un’altra, di tutti i momenti in cui si immaginò le piramidi; un’altra, del suo commercio con la notte e con le aurore
.”

Così esordiva Jorge Luis Borges in Altre Inquisizioni, nel suo saggio intitolato Sopra il “Vathek” di William Beckford.

Lothar Wolleh, Ritratto di Rene Magritte, 1967
© Lothar Wolleh, Ritratto di Rene Magritte, 1967

Chi è René Magritte: biografia attraverso la vita e le sue 800 opere

Il 21 novembre del 1898, dunque, esattamente centoventitre anni fa, nella piccola cittadina belga di Lessines, nasceva René Magritte, l’uomo che avrebbe cambiato per sempre il nostro modo di guardare a una bombetta, a una pipa e persino ad una mela.

Al di là dei fatti strettamente biografici e tradizionali, vorrei cercare di raccontare questo artista eccezionale soprattutto attraverso un percorso che, partendo dalla sua concezione dell’arte e da qualche suo celebre dipinto, arrivasse ad indagare l’enorme risonanza ed influenza che egli ha significato e significa per la nostra epoca in diversi campi.

Si tratterebbe, insomma, di una passeggiata attraverso alcune delle lucide visioni e dei sogni coscienti di Magritte, le sue opere (800 in totale, tra tele e disegni) che, dopo di lui, rimasero, per riapparire e essere risognate – da altri visionari, da altri sognatori.

Per cercare di non tralasciare nulla, senza dover scoraggiare i lettori, dividerò questo lavoro in tre parti, e con questa di oggi mi spingerò attraverso le trappole e gli inganni della rappresentazione.

«[…] beau […] comme la rencontre fortuite sur une table de dissection d’une machine à coudre et d’un parapluie!»
«[…] bello […] come l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello!»
(Canti di Maldoror, canto VI)

Questa intrigante bizzarria di Isidore Ducasse, alias Comte de Lautreamont, è contenuta nel suo allucinato e feroce libro: i “Canti di Maldoror” (1874).
Di rado, che io sappia, la frase di un poeta o di uno scrittore fu tanto gravida di conseguenze per gli sviluppi dell’arte a venire.

Mai, incontrandosi, un ombrello e una macchina da cucire produssero tanta bellezza!

René Magritte e il surrealismo degli oggetti quotidiani

Il principio di utilizzare oggetti del nostro quotidiano, ricollocati in un contesto nuovo e distante dal loro abituale, spesso accostandoli ad altri elementi in maniera del tutto insolita, generava un effetto di straniamento nello spettatore; tale fusione o confusione conferiva un sapore onirico alla scena, in grado di farci evadere da quelli che Proust aveva definito gli «effetti analgesici dell’abitudine».

A questo principio si appellarono molti artisti, a partire dal pittore Giorgio De Chirico, che traspose l’idea rivoluzionaria nei suoi quadri.

Tutto il movimento surrealista identificherà in Lautreamont (ed anche in De Chirico) un importante precursore.
La sua influenza fu capitale, facendo solo alcuni nomi, per André Breton, Max Ernst, Man Ray, Salvador Dalì, e, naturalmente, René Magritte.
(N.D.A. Sia Dalì che Magritte illustrarono i Canti di Maldoror, rispettivamente nel ‘34 e nel ‘48). 

Giorgio De Chirico, Canto d’Amore 1914 Museum of Modern Art, New York
Giorgio De Chirico, Canto d’Amore, giugno-luglio 1914, olio su tela, 73×59,1 cm, Museum of Modern Art, New York

Nel suo famoso quadro Canto d’amore, dipinto nel 1914, De Chirico accostava, secondo i principi lautreamontiani enunciati, un guanto da chirurgo e la testa dell’Apollo del Belvedere, ingigantiti in maniera spropositata, e posti, sull’alto muro di un edificio, nello scenario d’una piazza deserta assieme a una grande sfera verde.

Alla visione del quadro, avvenuta nel ‘23, un giovane René Magritte proruppe in lacrime.
I miei occhi avevano visto il pensiero per la prima volta”, dirà in seguito.
Si trattò della sua folgorazione sulla via di Damasco e fu allora che Magritte intraprese la strada di pittore surrealista.
Quindici anni dopo, in una conferenza ad Anversa, pienamente raggiunta la maturità della sua poetica, egli la descriverà così:

“La creazione di nuovi oggetti; la trasformazione di oggetti noti; il mutamento di materia di certi oggetti: un cielo di legno, per esempio; l’uso delle parole associate alle immagini; la denominazione erronea di un’immagine; la rappresentazione di certe visioni del dormiveglia, furono a grandi linee i mezzi da me usati per costringere gli oggetti a divenire infine sensazionali […] I titoli sono scelti in modo tale da impedire anche di situare i miei quadri in una regione rassicurante che lo svolgimento automatico del pensiero potrebbe trovar loro allo scopo di sottovalutarne la portata. I titoli devono essere una protezione supplementare, destinata a scoraggiare qualsiasi tentativo di ridurre la vera poesia a un gioco senza conseguenze.

René Magritte: il surrealismo del “sabotatore tranquillo” mostra il mistero della vita e stimola alla riflessione il suo pubblico

Surrealiata sui generis, alquanto critico nei confronti della psicanalisi e dell’inconscio come privilegiate chiavi di lettura dell’arte, egli interpreta la sua pittura non come un’espressione di quest’ultimo, ma piuttosto quale un sogno lucido e volontario.
La missione che Magritte si diede, fu quella di portare lo spettatore a mettere in discussione il mondo reale; “far urlare il più possibile gli oggetti familiari” era il mezzo per far riflettere il suo pubblico sul fatto che “nella vita tutto è mistero”.

René Magritte, Les Valuers Personnell I Valori Personali
René Magritte, Les Valuers Personnelles (I Valori Personali), 1952. Olio su tela 80×100 cm. San Francisco Museum of Modern Art.

Le saboteur tranquille, il disturbatore o sabotatore silenzioso fu l’appropriato soprannome che egli si guadagnò, proprio per questa sua modalità eversiva che operava con un inizio in sordina.

Riproponendo infatti il familiare e il banale – ciò che insomma era noto–, ma sotto una luce nuova, egli era in grado di creare un’atmosfera straniante, accompagnando, per così dire per mano, l’osservatore nei territori dell’Unheimlich.

Quest’ultima parola, che designa ciò che in italiano traduciamo come perturbante, inquietante, indica qualcosa in cui noto ed ignoto, al contempo, coesistono e coabitano, conservando, in tedesco, la bivalenza di heimlich: “della casa, familiare, noto”, ma anche, paradossalmente, “nascosto, celato alla vista, tenuto segreto”.

René Magritte: tra Pop Culture e postmodernismo

La straordinaria opera di Magritte fu un’eredità indelebile e imprescindibile per molte tendenze artistiche successive. Dagli anni ‘60 in poi, fu consacrato dalla Pop Culture. Artisti quali Richard Hamilton ed Eduardo Paolozzi dovettero molto alla critica magrittiana dell’esistenza borghese.

L’immaginario evocato dal pittore belga, inoltre, è fortemente iconico e capace di enorme suggestione, al punto che, ad esempio, limitandoci al solo panorama musicale, il Jeff Beck Group scelse il suo quadro, La camera d’ascolto (1958), per la copertina del proprio album: Beck-Ola (1964).

Jeff Beck Group, Back-Ola, 1964
Jeff Beck Group, Back-Ola, 1964

Il cantautore statunitense Jackson Browne volle invece riprendere il celeberrimo L’Impero delle luci (di cui esistono in effetti almeno tre differenti versioni, realizzate fra il ‘49 e il ‘54) per Late for the Sky, album del ‘74.

Jackson Browne Late for the Sky copertina
Jackson Browne, Late for the Sky, 1974.
René Magritte, L’Empire des lumières II L’Impero delle Luci II New York The Museum of Modern Art
René Magritte, L’Empire des lumières II (L’Impero delle Luci II), 1950. Olio su tela, 114 x 146 cm, New York, The Museum of Modern Art

Infine, gli Styx, nel ‘77, per la copertina del loro settimo album, The Grand Illusion, rielaborarono il dipinto La firma in bianco (1965).

Styx The Grand Illusion 1977 copertina
Styx, The Grand Illusion, 1977.
René Magritte Le Blanc-seing La firma in bianco
René Magritte, Le Blanc-seing (La firma in bianco), Olio su tela, 81 x 65 cm, Washington, National Gallery of Art.

Magritte è considerato anche un antesignano del postmodern: la sua cifra stilistica, giocata sull’assurdo, sul paradossale, sulla fusione citazionaria e la mescidazione di generi, sulla riflessione (anche irriverente) capace di instillare il dubbio sulla realtà, raccoglie istanze che saranno tutte convogliate nella temperie postmoderna, dalla seconda metà del XX secolo.

Le sue riflessioni sulla rappresentazione, i cortocircuiti logici creati nel palesare quest’ultima e la lingua stessa come mere convenzioni, incapaci di attingere veramente alla realtà (o, in termini di linguistica, al referente), furono un impulso straordinario anche per la nascente arte concettuale.

René Magritte L’Empire des lumières L’Impero delle Luci Collezione Peggy Guggenheim Venezia
René Magritte, L’Empire des lumières (L’Impero delle Luci), 1953-54, Olio su tela, 195,4 x 131,2 cm, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, New York)

René Magritte: “questa pipa non è una pipa”

Chi oserebbe pretendere che la RAPPRESENTAZIONE di una pipa È una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi NON È UNA PIPA.”

Le origini del mito: quando il dipinto di Zeusi ingannò gli uccelli

Compiendo un notevole salto di spazio e di tempo, spostandoci ancora più lontano dal Belgio e dalla Francia del ‘900, fino all’antica Grecia, abbandoniamo per un poco i luoghi della Storia e addentriamoci in quelli del Mito. Secondo quanto ci dice Plino il Vecchio (Naturalis Historia, XXXV) due leggendari pittori, Zeusi e Parrasio, si fronteggiarono in un agone per stabilire a chi spettasse la supremazia artistica.

Zeusi dipinse dell’uva con tale realismo, che gli stessi uccelli del cielo, ingannati dalla perfezione del dipinto, si calarono per nutrirsene. Invano.
Soddisfatto di questo prodigioso risultato, Zeusi disse a Parrasio di scoprire la sua opera. Credeva infatti che il lavoro di Parrasio si trovasse coperto da un tendaggio; grande fu il suo stupore nell’apprendere che il tendaggio non si poteva scostare, giacché esso stesso era il dipinto.
Zeusi, il pittore tanto abile da ingannare la natura medesima (rappresentata dagli animali), era stato a sua volta ingannato da Parrasio, cui spettava, dunque, il trionfo: il pittore aveva ingannato il pittore.
È forse questa la prima descrizione a noi giunta del cosiddetto trompe l’oeil.

L’evoluzione del mito: quando la Warner Bros propose Willy il Coyote e Road Runner

Molti secoli dopo, nel 1949, in America, la strabiliante fantasia di Chuck Jones e Michael Maltese, alle dipendenze della Warner Bros, concepì l’eterna caccia di Willy il Coyote, un coyote macilento e affamato, al perpetuo inseguimento del più furbo e più veloce Road Runner (Geococcyx californianus), un piccolo uccello corridore, che in Italia sarebbe stato noto con il nome di Beep Beep.
Gli espedienti del Coyote erano destinati a replicarsi infinitamente, essendo tutti ineluttabilmente votati al fallimento.

Tra le molte gag che affollano questa serie di cortometraggi, ve n’è una, a mio parere, quintessenziale:

Siamo di fronte all’ennesima trappola ordita: si tratta di un finto tunnel, disegnato con maestria sulla roccia da Willy, per ingannare Beep Beep e farlo schiantare. Sorprendentemente però, senza rellentare la sua corsa dinanzi alla finta galleria, ben più fortunato degli uccelli di Zeusi, in men che non si dica Beep Beep l’attraversa, scomparendo in lontananza.
Il coyote, sorpreso, cerca di lanciarsi all’inseguimento, anche lui attraverso il tunnel dipinto, ma l’effetto è tutt’altro: ne è respinto e la fortissima musata, presa sulla roccia, lo lascia steso a terra.
Si rialza barcollante giusto in tempo per essere investito da Beep Beep, che ritorna, a velocità supersonica, uscendo dal tunnel disegnato.

Il mito greco di Zeusi, il cartone animato di Willy il Coyote e la pipa di René Magritte: logica e fisica al di là del reale

Questi due episodi, apparentemente così diversi e distanti fra loro, ma in realtà profondamente simili, si affacciano alla mia immaginazione ogniqualvolta io pensi alla pipa di Magritte.

Nel mito greco, così come nel cortometraggio animato americano, si pongono delle straordinarie riflessioni sulla realtà e la rappresentazione. Se i trompe l’oeil dei due leggendari pittori possono ingannare, non sono tuttavia in grado di incarnare completamente le proprietà del reale.

Diversamente avviene in un cartone, in cui la logica e la fisica non rispecchiano più quelle terrestri, bensì quelle dell’universo dei cartoni animati, dove nulla è reale, e tutto è rappresentato. Logica e fisica riacquistano infatti il loro valore e il loro peso solo quando occorrono a decretare il fallimento del coyote.

Potremmo anche ipotizzare che Beep Beep attraversi il tunnel perché ignora che il tunnel sia finto; mentre Willy ci si schianti perché, autore dell’inganno, non crede davvero che lo si possa attraversare.

Willy il Coyote nella street art

La gag del tunnel di Willy il Coyote, ripresa, con variazioni sul tema, in diversi episodi, fu tanto virale da creare anche una fake news nel 2016, quando uno street artist dipinse su un muro un finto tunnel, con tanto di Road Runner a fianco, e qualche buontempone vi fotografò accanto un’auto incidentata.

Numerosi quotidiani e blog abboccarono, riportando la notizia di un improbabile e distratto automobilista (dovremmo supporre Willy il Coyote), lanciatosi rovinosamente contro il muro.

René Magritte: la pipa e il significato della sua opera più celebre

Precursori o successori (forse involontari) delle riflessioni magrittiane, i tradimenti delle immagini appena narrati si possono ben collocare per affinità accanto alla famosa e famigerata pipa smentita.

René Magritte questa non è una pipa Il tradimento delle immagini
René Magritte, La Trahison des images (Il tradimento delle immagini), 1928-1929, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles

Quello che è probabilmente il più celebre dipinto di Magritte, raffigura una realistica pipa, sospesa in uno spazio indefinito ed una scritta in un lezioso corsivo che spicca sotto di essa a mo’ di didascalia.
Diversamente da quanto lo spettatore si potrebbe attendere, la scritta non afferma l’immagine rappresentata, bensì la nega: Ceci n’est pas une pipe, Questa non è una pipa.

L’insieme di caratteristiche che rendono pipa una pipa, non è posseduta da nessuna immagine o rappresentazione di essa, per quanto precisa o fedele.

René Magritte e il tradimento delle immagini: “nessuno potrebbe fumare la mia pipa”

Come Magritte amava dire, provocando ironicamente il suo pubblico, nessuno potrebbe fumare la sua pipa. L’immagine e l’oggetto alluso sono separate da una insanabile frattura.
Si tratta, anche in questo caso, come denuncia il titolo del quadro, di un altro Tradimento delle immagini.
Realizzata nel 1929, questa versione si colloca come l’importante conquista di una ricerca del pittore che, iniziata nel ‘26, tornerà più volte su se stessa fino addirittura al ‘66.

Lo iato tra rappresentazione e rappresentato, esiste, in effetti, non soltanto per le immagini e la realtà, ma anche per la lingua tout court, che alla realtà, allo stesso modo convenzionale e arbitrario, vuole alludere: allo stesso modo delle immagini funzionano le rappresentazioni verbali, orali o scritte che siano.

René Magritte La bonne foi
René Magritte, La bonne foi, 1964-1965, Olio su tela, Collezione privata

L’immagine di qualcosa non è in fin dei conti che una proto-scrittura di essa (si pensi ad esempio al fatto che le prime forme di scrittura ricorrevano all’ideogramma).

A volte il nome di un oggetto sta al posto di un’immagine. Una parola può prendere il posto di un oggetto nella realtà. Un’immagine può prendere il posto di una parola in una proposizione.

disse lo stesso Magritte, che sembra qui quasi profetizzare l’odierna scrittura per emoji.

Questa frase è anche, a ben vedere, l’ottima spiegazione di un altro quadro che precede di un anno la famosa pipa: Le miroir vivant (Lo specchio vivente), che non fa che estremizzare tale assunto.
Su un fondo nero, delle chiazze chiare e collegate fra loro contengono parole in luogo di immagini: “personaggio che scoppia di risate”, “orizzonte”, “armadio”, “grida di uccelli”, sono gli elementi che compongono una scena.

René Magritte La chiave dei sogni La clef des songes 1935

René Magritte, Le Miroir vivant (Lo Specchio vivente), 1928, Olio su tela, 54 × 73 cm, Collezione Privata

Magritte sfrutta qui l’intercambiabilità di immagine e parola per riflettere e rappresentare il mondo solamente attraverso parole.

René Magritte, le immagini e le parole: perché i nomi NON sono conseguenza delle cose

Similmente Jorge Luis Borges concepì nei suoi racconti un Universo sub specie di infinita biblioteca (La Biblioteca di Babele), o l’insano progetto di un libro mondo, parodia della Divina Commedia, che per folle pretesa del suo scrittore contenesse tutte le cose (L’Aleph).
La precisione di tale libro ne decreterebbe anche la totale inservibilità.
“Il semplice è sempre falso, ciò che non lo è, è inutilizzabile” osserva finemente Paul Valery.

Un certo grado di inesattezza è dunque il compromesso necessario di ogni rappresentazione, in bilico tra i due poli opposti della semplicità eccessiva e del suo contrario.
E tuttavia l’approssimazione, incapace di totale esattezza, in cui la rappresentazione (sia essa immagine o testo) ci costringe, essendo poggiata su convenzionalità e arbitrarietà, non è esente dal paradossale, che qui, nella pipa di Magritte, è così lucidamente smascherato.

Se qualcuno ci chiedesse “cos’è?”, noi risponderemmo “è una pipa”. Eppure tutto questo è un equivoco dovuto alla convenzione che lega ogni oggetto ad un nome.”

Per questo stesso motivo:

“Un oggetto non possiede il suo nome al punto che non si possa trovargliene un altro che gli si adatti meglio”

Concetto, quest’ultimo, che getta luce anche su di un’altra serie di dipinti, realizzati a più riprese e intitolati La Clef des songes (La chiave dei sogni). In queste tele, suddivise in riquadri isolati fra loro, Magritte rappresenta dei singoli oggetti su degli sfondi monocromi, simili a quello della nostra pipa.

René Magritte lo Specchio vivente Le Miroir vivant L
René Magritte, La clef des songes (La chiave dei sogni), 1935, Olio su tela, 41 × 27 cm, Centre Pompidou, Paris

Sotto agli oggetti, una didascalia, ma la parola, il più delle volte, manca totalmente la corrispondenza con l’immagine.“ La denominazione erronea di un’immagine”, era come confessato da egli stesso, uno dei modi per sbalestrare lo spettatore fuori dalla comfort zone delle sue certezze. Si può pensare al fatto che nel mondo onirico una cosa spesso rimandi ad un’altra, dalle letture freudiane dei sogni a quelle più folkloriche della smorfia napoletana.

Spesso, mentre sogniamo, possiamo venire a contatto con qualcosa o qualcuno, diremo X, e sapere, per conoscenza onirica, trattarsi di Y. Ma questo scollamento fra il nome e la cosa, come si è visto, appartiene anche al mondo della veglia: nomina NON sunt consequentia rerum, i nomi NON sono conseguenza delle cose.

René Magritte e William Shakespeare: che cos’è un nome?

E per chiamare in causa un illustre antecedente letterario di tale principio, perché non citare William Shakespeare con quella che è forse la sua più famosa scena?

O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all’amor mio, ed io non sarò più una Capuleti.

[…] Il tuo nome soltanto è mio nemico: tu sei sempre tu stesso, anche senza essere un Montecchi.
Che significa “Montecchi”? Nulla: non una mano, non un piede, non un braccio, non la faccia, né un’altra parte qualunque del corpo di un uomo.

Oh, mettiti un altro nome! Che cosa c’è in un nome?
Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione, che egli possiede anche senza quel nome. Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prenditi tutta me stessa
.”

© Photo/Houston Chronicle. Rene Magritte nel 1965, davanti al suo quadro “La forza delle circostanze”.
© Photo/Houston Chronicle. Rene Magritte nel 1965, davanti al suo quadro “La forza delle circostanze”.

Il sabotatore silenzioso ci circonda, ha ancora molto da dire, e continua a far parlare di sé.

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