Quando è che un corpo balla veramente? Quando sa stare sulle punte e fare relevé dall’en dehor perfetto? E’ la sintonia con la musica? Oppure, si può dire che balliamo quando rompiamo gli argini e usciamo dagli schemi? Una riflessione che coinvolge Antonioni, Antoine d’Agata, Alanis Morissette e Sartre.
Foto copertina: “Zabriskie point”, scena del film di Michelangelo Antonioni, 1970.
“In ciascuna percezione il corpo è là: esso è il passato immediato in quanto affiora ancora nel presente che lo fugge. Questo significa che esso è, a un tempo, punto di vista e punto di partenza: un punto di vista o un punto di partenza che io sono e che insieme oltrepasso verso ciò che ho da essere”
Jean-Paul Sartre, Essere e Nulla
Il ricordo più vivido che ho di Zabriskie Point sono i corpi che fanno l’amore tra le dune del deserto, in fusione con la sabbia; il corpo nudo di Alanis Morissette che canta thank you terror e thank you fragility; quelle carni sfocate, nell’atto di fare sesso, nelle foto di Antoine d’Agata; un movimento deformante che presta loro le sembianze di animali scheletrici.
E’ probabile che siano stati gli studi artistici a deformare il mio filtro visivo.
In Accademia, quasi ogni giorno, avevamo davanti dei corpi nudi in posa per noi, dei quali dovevamo provare a ricomporne le ossa, i muscoli, le pieghe della pelle. Quanto era difficile rendere onore al corpo attraverso le sfumature, per me, che non sono mai stata brava a disegnare.
Sarà che giriamo sempre intorno alle solite ossessioni, sarà che il corpo è stato una delle mie, per un certo periodo di tempo.
Come idea di corpo-luogo, per dirla alla Vito Acconci, materiale espressivo.
Al corpo come luogo di rappresentazione ci sono arrivata attraverso lo studio della body art e della performance. C’è un comune denominatore in questa maniera di fare arte che usa il corpo come utensile: la perdita di identità, il rifiutarsi di fare prevalere il senso della realtà sulla sfera emozionale, la ribellione dalla dipendenza da qualcosa o da qualcuno, il dolore per l’assenza di una forma d’amore.
Alcuni artisti considerano il proprio corpo come un mezzo per rompere quegli schemi in cui noi esseri umani siamo ipocritamente costretti a riconoscerci. E così si scatenano forze distruttive, vittime che diventano carnefici e viceversa. Mostrare le proprie debolezze, psichiche e fisiche, è per molti una strada per prendere in mano la propria vita.
Gina Pane nelle sue performance presentava spesso situazioni legate ai ricordi di traumi, che venivano tradotti in pièce.
In “Azione Sentimentale”, una performance messa in scena nel 1973 presso il Centre Pompidou di Parigi, la Pane è vestita di bianco, con un solo bouquet di rose rosse tra le mani, l’artista stacca una ad una le spine per poi provocarsi delle ferite lungo le braccia.
Il sangue tinge il vestito di rosso e le rose rosse diventano bianche. Quello che viene richiesto allo spettatore è un atto d’intelligenza: se l’opera fa resistenza o respinge, evidentemente, è perché c’è qualche sovrastruttura da scansare per arrivare alla comprensione.
E’ un affrontare la morte attraverso la vita, esibendo il rovescio.
Il rovescio è qualcosa di particolarmente interessante se lo abbiniamo al corpo, poiché noi nasciamo nudi, ma poi ci viene insegnato a coprirci, a incedere seguendo certi movimenti, a sederci in un certo modo.
Perfino quando danziamo, in quello che dovrebbe essere un atto di libertà primitiva, anche in quel momento, ci vengono insegnati dei passi da seguire.
Dal ballo mi sono dovuta liberare, per poter ballare davvero, e ancora non so se sono capace di farlo.
Devo ancora imparare a dispensare il mio corpo dall’obbligo di essere perfetto mentre ballo, mentre amo, o mi muovo nel mondo.
In qualunque ambito della mia vita, devo sollevare il mio corpo dall’incarico (arrivatomi, da dove?) di dover essere fisicamente impeccabile.
La mia ex insegnante di danza classica, allieva a sua volta di una ballerina del Bolshoi era una danzatrice fenomenale, ma ho spesso pensato che stesse fingendo, che in realtà non sapesse ballare.
Se ballare è stare sulle punte, comporre coreografie irripetibili, fare relevé dall’en dehor perfetto, allora lei sapeva ballare, ma quando è che un corpo balla veramente? E’ la sintonia con la musica, o la riproduzione di una serie movimenti? Oppure, si può dire che balliamo quando rompiamo gli argini e usciamo dagli schemi?
Antonin Artaud, sperimentatore assoluto
Il 4 settembre 1896 nasceva a Marsiglia, Antonin Artaud uno dei giù importanti personaggi della scena teatrale della prima metà del Novecento.
Viene definito da Barrault l’“uomo-teatro” per il suo dedicare un’intera esistenza a questa forma di spettacolo; è stato attore, drammaturgo, regista, scrittore, disegnatore, uomo di cinema, viaggiatore e antropologo.
All’età di quattro anni Artaud viene colpito da una grave forma di meningite che pare abbia poi compromesso la sua vita futura, infatti dal 1936 entra ed esce da vari manicomi per più di dieci anni.
Nella clinica di Rodez incontra il dottor Ferdière, sostenitore dell’arte terapia ma anche dell’elettroshock, e Artaud ne subisce ben cinquantuno.
Personaggio anomalo, poeta utopista, pazzo geniale. Quando penso ad Artaud mi vengono in mente due delle immagini più poetiche e potenti sulla danza, il corpo e la vita.
In “Per farla finita con il giudizio di Dio”, afferma:
«Si è fatto mangiare il corpo umano, / lo si è fatto bere, / per evitare di farlo danzare […] La peste, il colera, / il vaiolo nero, / esistono solo perché la danza / e di conseguenza il teatro / non hanno ancora cominciato ad esistere.»
Antonin Artaud e la danza alla rovescia, l’ultima sua idea sovversiva
Artaud intuisce che il nostro corpo biologico, corpo organico quindi, è stato fatto ostaggio di Dio e di tutti gli apparati amministrativi della società, per mortificarlo, renderlo schiavo di movimenti, e di un estremo giudizio che viene dal potere.
Infatti, anche i nostri organi hanno un potere su di noi: richiedono costantemente delle cure, quali cibo, ossigeno, pena la rottura degli ingranaggi che lo fanno funzionare.
Secondo Artaud solo la danza può liberare il corpo dalle tossicità che lo alimentano, ma è un riappropriarsi del corpo che non ha niente a che vedere con una liberazione intesa come spontaneità. La questione per lui non è liberarlo, ma rifarlo, attraverso quella che lui chiama una “danza alla rovescia”, cioè una catarsi sgraziata di movimenti, a liberare il corpo dagli automatismi per restituirlo al suo niente, cui appartiene e da cui è abitato.
E’ così che Artaud, reduce da anni di internamento psichiatrico, ipotizza il CsO, ovvero un corpo molle, privo di viscere. Corpo senza Organi.
Forse l’ultimo desiderio di Artaud era liberare l’uomo da tutto, perfino da sé stesso.
Forse per Artaud liberare il corpo dagli automatismi, voleva dire svuotarlo da ciò che detta legge, un organo, un dogma, una marcia nuziale o di guerra.
Quando penso al corpo, alla danza alla rovescia, ma anche al CsO, penso per estensione al concetto di perdita.
Sarà che oggi ci viene detto di ritrovarci a tutti i costi, ci vengono propinati metodi per incontrarci lì dove siamo più in forma, che siamo bombardati dalla filosofia del benessere e della cura del corpo.
Quando mi affaccio a Instagram vedo soprattutto foto di corpi.
Siamo ossessionati dalla necessità di agire in funzione dell’altro, dalla necessità di mostrarci perfetti e performanti per poter esistere; e il corpo e il suo muoversi è diventato una macchina di perfezione.
Se invece avesse avuto ragione Artaud, se fosse nella perdita e nel rovescio che ci incontriamo?