I mille volti delle attese, perché vale la pena aspettare

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I mille volti delle attese, perché vale la pena aspettare

L’attesa dal punto di vista di Romeo e Giulietta, della moglie di Dante, di Penelope e Petrarca. L’attesa per gli Egizi, i Vichinghi, i Greci, i Romani, gli Islamici, gli Induisti e i Cristiani. Prendendo in prestito versi di Giorgio Gaber, Sylvia Plath e i Radiohead.

Viviamo di attese. La prima: l’alba di un nuovo giorno

Tra 3 ore e 24 minuti sarà l’alba.
Lo so perché l’ho cercato. 
Non che sia in attesa del sorgere del Sole ma l’orologio della cucina della signora che vive accanto alla mia stanza mi ci ha fatto pensare.

Tic. Tac.
Tic. Tac.

È un orologio estremamente rumoroso. Talmente tanto rumoroso da far pensare allo scorrere del tempo e a quello che arriverà domani.
Al sorgere del Sole.
Come un vero e proprio topos letterario, quello dell’alba provenzale nella lirica occitana, le prime luci del nuovo giorno portano mestizia nel cuore dei due giovani amanti, costretti a separarsi per paura di essere scoperti. Ma quanto tempo dovranno aspettare per riabbracciarsi?
Quanto durerà l’attesa di un nuovo incontro?
In attesa. 
Ieri come oggi.
Siamo sempre in attesa. 

Tic. Tac.
Tic. Tac.

© Henri de Toulouse-Lautrec_Il bacio a letto

Attesa per una nuova vita. O per un ritorno in vita

Per gli Egizi era il Duat, l’aldilà. Per i Vichinghi il Valhalla. I Campi Elisi per i Greci e i Romani.
C’è l’attesa del Giudizio per gli Islamici e la Resurrezione per i Cristiani.
C’è l’attesa per l’arrivo del Messia per gli Ebrei e c’è la speranza di rinascere per gli Induisti.
Vita, morte, resurrezione, paradiso. 
Sono queste le attese su cui si fondano tutte le religioni.
Attese che durano tutta una vita. Vite vissute nell’attesa della morte.

Tic. Tac.
Tic. Tac.

Attesa per il ritorno di qualcuno.
O per superare la perdita di qualcuno

Immaginate l’ansia di Demetra in attesa di Persefone ogni primavera.
O immaginate lei, Penelope. La donna che aspetta venti anni il ritorno del marito. Venti anni di attesa. Impossibile. Un’attesa che Romeo non è in grado di gestire e, per questo, si toglie la vita il prima possibile per raggiungere Giulietta.
Immaginate Petrarca che lì, nel silenzio del suo intimo turbamento, aspetta che Laura si giri. O immaginate Gemma Donati, quella sfigata della moglie di Dante che ha aspettato tutta la vita che il marito scrivesse qualcosa per lei e invece, per un sol sguardo in una chiesa una sola volta, probabilmente neanche dedicato a lui, passerà il resto della sua vita a scrivere di Beatrice.

Tic. Tac.
Tic. Tac.

Attesa di un amore. True love waits dei Radiohead

Immaginate una visione positivistica dell’amore. E poi altre sfaccettature. Non stiamo parlando della frenesia di un incontro o dell’attesa di un nuovo incontro, come nella lirica occitana.
Stiamo parlando di questo.

Una supplica. 
Il tempo che si ferma e tutto resta in attesa. Un’attesa colma di vuoto, di parole non dette, di cose non fatte. È il 1995 quando i Radiohead presentano per la prima volta solo in live True love waits. Era una versione fatta solo con un giro breve di chitarra accompagnata da voce. 
Straziata. E straziante. 
E mai inserita in nessun disco. Quella che ascoltate qui è la versione definitiva. Rimaneggiata e rivista nel corso degli anni. Tanti anni.
La canzone dell’attesa per l’attesa.

And true love waits
In haunted attics
And true love lives
On lollipops and crisps

Il vero amore aspetta in attici infestati, cantano. Dai profumi, dagli oggetti, dai ricordi.
Il vero amore vive di lecca lecca e patatine, quando il tempo si viveva e non si faceva scorrere o aspettare. Il vero amore aspetta.
Aspetta la notte per splendere. O le prime luci dell’alba per riscaldarsi.
Aspetta di essere notato, di essere ascoltato.
Il vero amore aspetta.

Tic. Tac.
Tic. Tac.

Attesa di un ascolto. O di un grido.

La vera verità è che non sempre si sa cosa aspettare. 
La vera verità è che delle volte sei in attesa, senti che tutto è lì, è sospeso e tu sei in una bolla ovattata in cui senti tutto. In cui vedi tutto. 
Ma non ascolti niente. Non guardi niente. 
La vera verità è che sai quello che hai vissuto ma non saprai mai quello che vivrai e non puoi farci niente perché questa è una cosa che non potrai modificare. Mai. 
E quindi il tempo scorre e tu aspetti. E senti crescere costantemente dentro di te qualcosa che aspetta con te. 
E aspetta. E aspetta. 
Potrebbe essere lo sbocciare di un fiore dai mille colori
Ma potrebbe essere anche un demone che cresce dentro di te e aspetta solo il momento giusto per uscire. Aspetta la tua debolezza, la tua fragilità. È lì insidioso che trama nelle più fitte tenebre della notte, quando il cervello non è davvero attivo e il cuore è dilaniato da non sai neanche cosa. 
Immaginate di essere abitati da un grido e di non avere voce ma, intanto, siete in attesa di un aiuto. 

Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice:
è quello di cui tu hai paura.
Io non ne ho paura: ci sono stata.

Sono queste le parole iniziali di Sylvia Plath in Olmo.
Olmo. Un talismano. Per l’attesa. L’olmo è simbolo di amicizia e amore, di sostegno e protezione. L’olmo indica la via. È lo specchio della coscienza umana che cerca uno scopo per superare le ansie, le paure, le inquietudini,
il tormento della vita. 
Qual è il tuo tormento?

© Edvard Munch_Separazione

Ho patito l’atrocità dei tramonti.
Bruciati fino alla radice
i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro.

L’atrocità dei tramonti. Atrocità? Perché atrocità? I tramonti sono belli, sono romantici. Creano un’atmosfera più conciliante rispetto alla fretta che mette l’alba. E allora perché atroci? 
Perché sai che quel momento che aspetti da così tanto tempo non ha nessuna sembianza di eternità. Non ha nessun contorno definito, non dà la possibilità di aprire un varco per fermare il tempo e renderlo immortale. Tutto viene bruciato, fino alla radice, lasciando dietro solo dell’arido vuoto che nessuna speranza, nessuna attesa può colmare.

Sono abitata da un grido. Di notte esce svolazzando
in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.
Mi terrorizza questa cosa scura che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.

Ed eccolo il demone che esce. È un demone che ha la forma della coscienza. Dell’intimità. È un demone che attacca il fianco scoperto, quando meno te lo aspetti.
Il fianco scoperto. Sempre lui. Quello che offre qualcosa da amare. E questo crea scompiglio, confusione, dramma e paura. 
Una paura atroce.
Una paura insensata. Una paura che cresce sempre di più e non puoi fare che aspettare che passi. 
Solo che sei nelle sabbie mobili e il tempo, in questo caso, sembra non passare mai.
O passa. 
Troppo in fretta. 
E ti porta giù.

Tic. Tac.
Tic. Tac.

Attesa della fine. O di un neo rinascimento

Ed è proprio nel fondo che poi si inizia a pensare. 
Forse si aspetta proprio quel momento per poterlo fare perché l’attesa, i mostri, le paure alimentano la curiosità. Quanto può andare ancora peggio? Quando arriverà il momento di dire basta? Quanto ancora devo aspettare che tutto questo finisca? E cosa mi devo aspettare dalla fine?

No, non muovetevi
C’è un’aria stranamente tesa
E un gran bisogno di silenzio
Siamo come in attesa

Perché da sempre l’attesa è il destino
Di chi osserva il mondo
Con la curiosa sensazione
Di aver toccato il fondo

Senza sapere
Se sarà il momento
Della sua fine
O di un neo rinascimento

Giorgio Gaber – Le attese

Tic. Tac.
Tic. Tac.

© Fondazione Lucio Fontana_ Concetto spaziale attese

E tu, cosa stai aspettando?

Tic. Tac.
Tic. Tac.

L’orologio della signora continua a ticchettare. Intanto si è fatto tardi. O presto. Il Sole non sorge verso la mia camera ma vedo le luci filtrare dalla persiana chiusa male. Sento gli uccelli iniziare a cinguettare. Sento qualcuno nel cortile accendere la tv per ascoltare il TG a un volume assurdo. Sento Milano risvegliarsi stranamente lentamente, sarà che è un dì di festa. Sento che c’è qualcuno che aspetta. 

Aspetta il sopraggiungere del sonno.
Aspetta per mettere su la moka.
Aspetta di fumare l’ultima sigaretta.
Aspetta per prendere un treno.
Aspetta per prendere un aereo.
Aspetta di tornare a casa.
Aspetta l’arrivo dell’estate.
Aspetta il risveglio dei figli.
Aspetta il ritorno di qualcuno.
Aspetta il messaggio del buongiorno.
Aspetta ancora il messaggio della buonanotte.
Aspetta di capire se sia il caso o meno di prendere un ibuprofene.
Aspetta per capire cosa fare di questa giornata.
Aspetta il suo momento.
Aspetta il momento giusto.
Aspetta il momento giusto per fare quella cosa che ancora non ha avuto il tempo di fare.
Aspetta il momento giusto per fare quella cosa che ancora non ha avuto il coraggio di fare.
C’è addirittura qualcuno che sta aspettando di leggere questo articolo.
Ma intanto aspetta. 
E aspetta.
E spera.

Tic. Tac.
Tic. Tac.

Perché quell’orologio può continuare a ticchettare all’infinito ma non cambierà il fatto che l’attesa porta sempre con sé quel qualcosa di sublime che ti lascia la speranza di dire che, alla fine, ne è valsa la pena.

Agli impazienti che vivono in attici infestati.
Alle corde lanciate nelle sabbie mobili.
Al compagno delle notti più lunghe. E più brevi. 
Il tempo.

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