Nasce come disegnatore che vuole fare il pittore. Gli consigliano di diventare grafico, ma lui vuole tatuare; e col tatuaggio dipinge. Per “Loreprod” il Sublime è una ricerca che spazia dall’espressionismo tedesco, all’arte primitiva di Picasso; dai Fauves di Matisse a Miró, Basquiat, Burgkmair e Franco Fontana. Perché l’arte vera è la rielaborazione del proprio “archivio preistorico”, e del proprio Daimon, retaggio di vite passate, che porta alla liberà della propria voce.

Le radici della tua vocazione affondano già nella tua infanzia. Quando e come Lorenzo Anzini diventa Loreprod?
Il mio pseudonimo è nato mentre frequentavo le scuole superiori. Avevo un po’ di contrasto con questo mio nome, da pronunciare con tutte queste zeta; da romagnolo, facevo una fatica impressionante. Soltanto in seguito ho capito il perché di questo essere così “tagliente”: non mi ero accorto della sonorità, lo vedevo solo per immagini. Ho cercato quindi di internazionalizzarlo un po’.
Avevo quattordici anni e, analizzando le firme degli artisti che più mi piacevano, sentivo: “Miró, Picasso, Dalì, Monet”.. Senti come come suonano? Ho pensato quindi che un po’ di suono dovesse entrare nel mio cognome: e così è nato “Loreprod”, fondamentalmente, “Le Produzioni di Lorenzo”.

Lorenzo Anzini, Loreprod, la tua carriera di artista inizia dalla grafica e approda al tatuaggio e alla pittura. Vuoi parlarci di come e se questi ambiti, di per sé diversi, si influenzino l’un l’altro nel tuo lavoro?
Sono tre ambiti assolutamente fondamentali. Mi permetto una piccola postilla: più che nascere dalla grafica, nasco proprio dalla necessità di disegnare. Quello che cambia è il medium: una tela, un manifesto o la pelle. Negli anni li ho semplicemente aggiunti ma, di fondo, c’era necessità di comunicare. Inizio a disegnare all’età di due anni, già da piccolissimo. Nel disegno mi ci sono sempre rivisto, era la mia oasi di pace, e tutt’ora lo è. Adesso significa anche grandi sofferenze: sai come è, il mondo dell’arte non porta solo godimento, porta principalmente sangue. Però, fa anche tanto godere.
Nasco come disegnatore che vuole fare il pittore; gli viene consigliato di diventare grafico, non vuole fare il grafico perché vuole tatuare, e col tatuaggio si può permettere di dipingere.

Pensi che la scuola di grafica che hai frequentato ti abbia in qualche modo influenzato nella tua maniera di rappresentare la realtà, nel trovare il tuo stile?
È stata decisiva nella mia formazione, perché mi ha aperto la mente sul ragionamento, l’analisi, la ricerca. Alla sintesi si arriva con un metodo grafico, se vogliamo. La Facoltà che ho frequentato, l’ISIA di Urbino, è stata fondamentale per me; un po’ come se mi avesse dato delle basi per poter fare quello che volevo nella vita.
È curioso, perché da quella scuola tante persone non sono uscite poi grafiche, ma, con quel metodo, sono potute diventare qualsiasi altra cosa. Ci dava proprio gli strumenti per poterci muovere nel tempo e nello spazio; non so come dire.. una scuola magica!

Lorenzo Anzini ha mai pensato di insegnare? Lì, per esempio, o altrove?
Lì sarebbe bellissimo. Proposte di insegnamento mi stanno arrivando proprio adesso. Insegnare è un gesto potentissimo: non basta sedersi ad una cattedra per essere docenti; necessita di essere fatto al meglio. Come io ho ricevuto dei buoni insegnamenti, vorrei essere in grado di trasmetterne altrettanti. È un impegno non da poco, sia a livello di docenza, che di spiritualità: gli insegnanti sono dei supereroi invisibili.

Nel tuo stile molto originale si fondono spunti e suggestioni eterogenei. Tra le molte mi sembra abbia una certa pregnanza quella di Jean Michel Basquiat. Se è così, in che cosa ti ha ispirato? E quali sono gli artisti che ti hanno influenzato maggiormente nel percorso che ti ha portato a trovare la tua voce?
Diciamo che Basquiat è un po’ quello più Pop, e più giovane ma, prima di Basquiat ce ne sono tantissimi altri, direi gli stessi che possono aver ispirato anche lui: l’arte africana e Picasso, su tutti. Siamo tutti figli di Picasso nel ‘900, c’è poco da fare, e Basquiat è solo una delle ultime conseguenze. Che abbia aperto un dialogo pittorico di un certo tipo è vero, ma è altrettanto vero che, prima di lui, ci sono gli espressionisti americani, l’Espressionismo tedesco, l’arte primitiva di Picasso, i Fauves di Matisse; c’è tanta bestialità e tanto primitivismo.
Quest’ultimo è un aspetto che secondo me è il più endemico nell’uomo, riesce a portare a galla anche la sfera dell’infanzia: il tratto aspro, inconsapevole, ma consapevole al tempo stesso. Non saper disegnare, ma comunque disegnare lo stesso. C’è la rottura delle regole dell’accademismo, c’è un sacco di carne al fuoco.
Quando, nel mio caso, leggono Basquiat come referente, mi piange un po’ il cuore; vuol dire che forse devo ancora lavorare sul distaccarmi dalla cosa. Riesco a leggere tante altre reference nei miei lavori: Miró – uno di quelli che più mi ha formato – Matisse, per citarne un altro.

Basquiat rimane comunque un artista importante per me, che sconvolse la mia vita quando avevo quattordici anni. Un giorno vidi delle sue opere su un giornale e ne rimasi folgorato, ma ci restai anche un po’ male: mi resi conto che io avevo un modo di dipingere, senza conoscere i suoi lavori, che inseguiva quel sapore brutalista, primitivo, quel “non voglio impegnarmi nel dipingere, ma nell’esprimere”.
Andai in crisi seriamente. Pensavo di essere l’unico, e invece avevo semplicemente attinto al mio “archivio preistorico”. Penso che siamo tutti connessi e assai spesso ci ritroviamo a fare delle cose che sono, probabilmente, anche il retaggio di vite passate.

È una riflessione molto junghiana.
Sì, ci si rigenera costantemente, abbiamo un Daimon, come dicono i Greci, che si tramanda di vita in vita; possiamo accettarlo, come no. Siamo convinti di essere unici, ma io penso che siamo sempre la conseguenza di qualcos’altro, e quindi è normale ritrovare dentro di noi cose di cui ignoriamo la provenienza, perché probabilmente sono anche di mille anni fa.

Pablo Picasso ha detto: “A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino”; mi viene in mente, allora, “il fanciullino” di pascoliana memoria, o anche Il Piccolo Principe. In certi tuoi lavori è come se Raffaello, fuor di metafora, un artista maturo e con un tratto preciso, incontrasse il bambino e lavorassero insieme allo stesso disegno. La trovo un’intuizione molto bella. Quanto è importante per Lorenzo Anzini – Loreprod l’elemento naïf e infantile e che cosa ti aiuta a “rimanere bambino”?
Hai usato due parole perfette.
Naïf è adulto: è un adulto che non si preoccupa di essere adulto. L’infantile è genuino, e si muove su una sfera di libertà assurda. Io cerco la libertà. La libertà è un concetto sia spirituale che di gesto. Noi adulti facciamo un percorso. Io vengo da un percorso di studi, tutt’ora continuo a studiare e non smetterò mai di farlo. Accade così che si acquisiscono nozioni, teorie, tecniche, e per certi aspetti non si è più liberi; si diventa un ensamble di elementi che strutturano una persona, una personalità e, di conseguenza, formano anche un artista.
Il bambino invece non ha tutte queste cose, si muove semplicemente con un inconscio superattivo, che sfoga direttamente nella mano, nell’equazione della libertà. È molto difficile cercare di lavorare su quella sfera e diventa una sfida incredibile. È un po’, senza assolutamente paragonarmici, quel che fece Picasso. Acquisire tecnica fa parte di un lavoro, ottenere la téchne, come dicono i Greci, ma abbandonarla in maniera spontanea è difficilissimo, soprattutto quando si è adulti. Sto cercando di muovemi proprio su quella dimensione: cercare di essere il più infantile possibile, ma con la testa, la saggezza e l’esperienza di un novantenne. Diventa una grossa dicotomia connubiare il primo vagito con l’ultimo respiro.

Vedo tra i tuoi lavori anche un bel tributo al fotografo Franco Fontana. La scala appoggiata sulla nuvola ha un significato? Qual è il tuo rapporto con la fotografia? Ci sono altri fotografi che ti hanno influenzato?
Mi piace la fotografia, ma non sono un fotografo e quindi non l’ho approfondita più di tanto come strumento di comunicazione o di espressione. Avendo però studiato fotografia, da Muybridge agli ultimi fotografi, mi sono rivisto in Franco Fontana come fotografo.
Un altro fotografo che mi interessa tantissimo è Chema Madoz: fa surrealismo fotografico e mi ha insegnato a ragionare fuori dagli schemi. Il suo lavoro è impressionante.

Il tributo a Franco Fontana è arrivato solo dopo qualche anno: la prima opera che feci di nuvola e scala risale quasi a quattro anni fa. Nell’opera c’è questa divisione “meta”, tra terra gialla e cielo azzurro. Mi sono reso conto dopo che avevo già visto le opere di Franco Fontana e quindi me le portavo dentro, però non avevo necessità di doverle ricondurre per forza a lui.
In questa scala che si appoggia alla nuvola c’è una narrazione molto profonda: parla di impossibile, di determinazione, di oniricità. Sappiamo tutti che non è possibile appoggiare una scala a una nuvola, però in arte lo diventa, in arte ci si prende libertà, soprattutto intellettuale.
In arte puoi appoggiare una scala a una nuvola, e ti ci puoi anche arrampicare sopra.

Si parla di determinazione, di sogno, di non fermarsi, parla di credere in un progetto, di credere in qualcosa, al punto tale da poter appoggiare una scala a una nuvola. Questa solidità contro questa evanescenza: c’è sempre un discorso di ossimori, di impossibile nei miei lavori, che invece trova comunicazione. Lo puoi rintracciare nella testa di rinoceronte perfetta col corpo disegnato dalla mano di un bambino. Ci sono cinquecento anni di storia dell’arte in un’opera.
Ho ridisegnato la testa del rinoceronte di Burgkmair e poi ci ho messo quattro secondi per fare quel corpo. Per fare quel corpo, in realtà, ci ho messo trentott’anni.

…picassianamente parlando…
Eh sì! Picasso era un genio per questo: non soltanto per quello che ha dipinto, ma per quello che pensava. La pittura ne è solamente una conseguenza: c’era una testa dietro, che lavorava su pianeti tanto nuovi, così distanti e inesplorati, che ancora, noi, Picasso ce lo sogniamo.

A proposito del rinoceronte, spesso ritrai soggetti presi dal mondo animale. Come mai questa bestialità, a cui mi accennavi prima, nella scelta dei soggetti di Lorenzo Anzini? Ci si potrebbe fare quasi un bestiario: gatti, tori, pesci…
…cani, somari, cavalli… ho proprio intitolato così una serie di opere, che si chiama Bestiarium. È un regalo che ci ha fatto il Covid: durante la pandemia, ho visto l’annichilimento delle persone, ho visto come opera un animale quando è in gabbia; ho visto la cattività diventare cattiveria.
Il Bestiarium non è altro che l’allegoria umana delle conseguenze del Covid.
L’uomo in cattività ha tirato fuori la bestia interiore, quando per assurdo è stato l’unico momento in cui, in una società così veloce, abbiamo avuto tutto il tempo a disposizione. Si era dilatato il mondo, e questa opportunità non è stata utilizzata nel migliore dei modi.

Anziché leggere se stessi, si è preferito rivolgersi con cattiveria agli altri. Da questo sono nate le opere di queste bestie – allegoria degli uomini; bestie ipercromatiche nei cui colori vivaci non c’è gioia, ma sclero, isteria, rabbia. Un po’ come i pesci tropicali.
Sai cosa fanno i pesci tropicali quando sono in un acquario? Prima di sbiadire i loro colori, hanno un momento di apice in cui i colori sono esasperati, ed è l’unica richiesta d’aiuto che possono fare.
Mentre noi siamo convinti che siano bellissimi, loro in realtà sono disperati, perché sono in cattività, e non potendo parlare, usano i colori.
Ho attinto a questo principio, e l’ho traslato sull’uomo che, non realmente in grado di comunicare, urla con dei colori vivaci.

Mi piace molto utilizzare il colore; quello che faccio lo chiamo cromoterapia. I colori che metto nel bestiario sono dei colori che, in realtà, raccontano il dramma senza fartelo vedere in maniera diretta, perciò è un’opera subliminale se vogliamo. Tutte queste bestie, con più zampe del previsto, che digrignano i denti ma poi in realtà sono magari pure sdentate, alludono anche alla metamorfosi che subiamo nel web.
Il web ci mette degli artigli che noi non abbiamo; abbiamo le dita, ci mangiamo le unghie, ma nel web diventiamo dei felini artigliati. Non sappiamo parlare, ma nel web abbiamo un megafono.
Mi piace molto trattare il tema della bestia nella sua aggressività, nella sua ignoranza e nella sua prepotenza primitiva. La bestia siamo noi.

Il nostro primo incontro è stato alla Fiera “ArtePadova” e lì ti ho riconosciuto grazie ai Social. È proprio grazie ai Social che Lorenzo Anzini – Loreprod ha iniziato a farsi conoscere e ad affermarsi, sia come tatuatore che, da poco, come pittore. Ti ha notato Zamagni Arte, una galleria con sede a Rimini. Quanto sono importanti per te i social media nella carriera di un artista?
I Social Media possono essere molto utili, però è inutile utilizzarli se poi non arriva alla gente quello che tu vuoi esprimere. Qui bisognerebbe parlare di un altro fenomeno che si crea, ovvero quello dell’incomprensione. Siccome si è abbassata tantissimo la soglia dell’attenzione nelle persone, siamo più impegnati a fare “scroll” di contenuti, che a darci del tempo per analizzare le cose, e quindi per comprenderle. Io credo si possa impressionare con molta più calma e profondità.
Qualche anno fa per me sono stati utilissimi, ora cominciano ad essere una ghigliottina. È una cosa che mi rammarica, perché alle volte costringe a fare un lavoro maggiore del necessario. C’è molta superficialità tra il pubblico, quando io mi sento, in realtà, un navigatore di profondità.

Quale consiglio darebbe Lorenzo Anzini a chi si affacciasse oggi al mondo dell’arte?
Chi si vuole avvicinare al mondo dell’arte, prima di tutto deve capire perché lo sta facendo. Fare soldi o fare successo chiaramente piace a tutti, ma prima di tutto ci dev’essere un’altra cosa: ti deve far star bene. “L’Arte a prescindere”, io lo chiamo. Poi impegnarsi, se si vuol crescere: fa parte del lavoro interiore che diviene conseguentemente esteriore.
Quando poi anche l’arte diventa un mestiere, non è più passione: il mestiere c’è anche il giorno che non hai voglia di lavorare, il giorno che non paga, il giorno che paga tantissimo, quindi ti pone anche delle interferenze non da poco. E non è perché sei un artista, che fai solo opere d’arte incredibili. Io ho più insuccessi che successi nel mio percorso di trentott’anni di vita. Capisci quindi che ti fa anche soffrire tantissimo, e deve andarti bene.
Comunque è già una forma di ricchezza svegliarsi la mattina e avere come obiettivo o un tatuaggio o un quadro da fare. Io vengo dal mondo del lavoro, e ne ho fatti di lavori di merda, comunque tutti nobilissimi! E non avrei paura di rifarli, se la vita dovesse portarmi ad un momento del genere; però mi son sempre promesso di poter fare quello che mi piace. Quando una cosa ti piace, non la fai otto ore al giorno, la fai trentasei ore al giorno, non smetti mai di farla. Vivere la mia vita da artista mi dà la possibilità di essere sempre dentro al lavoro, ma in libertà, senza dare conto a terzi; è faticoso ma è bellissimo: è un sudore che ho scelto.

Il Sublimista si propone di diffondere la bellezza di ogni arte, e di raccontare la vita di artisti e personaggi che del Sublime hanno fatto, ciascuno a proprio modo, uno stile di vita; ciò nella convinzione che gli esempi virtuosi possano essere d’aiuto – per gli individui, per i lettori – a trovare il Sublime in se stessi, a percorrere, attraverso la cultura, una strada di auto-realizzazione. Per te, Lorenzo Anzini, Loreprod, che cos’è il Sublime?
Per questa domanda avrei dovuto fare filosofia, non l’ISIA, maledetto!
L’arte mi insegna che è inutile fare l’artista se non c’è un pubblico educato a guardare un’opera. Dobbiamo preoccuparci, più che di fare arte, di educare la gente a capirla. L’arte si palesa già nella Natura, che è la nostra più grande Maestra; ma bisogna educare il pubblico a guardare, a vedere; questo anche per dire che senza di voi non arriverebbero magari certi miei pensieri, e per questo, come artista, vi ringrazio.
Il Sublime è una ricerca. Io posso trovare altre cose sublimi, non le mie: non sono io che devo decidere se ho fatto delle opere Sublimi. Mi auguro ci sia qualcuno che tale definisca il mio lavoro, anche se non è solo Sublime il termine che magari cerco. Anche solo ottenere delle critiche è già Sublime, perché se qualcuno ha dedicato il proprio tempo al tuo lavoro, ti ha messo sotto una lente, ti ha preso in considerazione e quindi ha determinato il fatto che tu esisti, che sei vivo.
In un mondo di tanti invisibili questo è già un ottimo successo, che trovo Sublime.
Sublime non è solo qualcosa di positivo, Sublime potrebbe essere anche qualcosa di negativo, però dipende sempre da come lo usi. A me piace l’alchimia: cerco sempre di portare il piombo ad uno stato aureo. Sublime può essere anche la merda: puoi scegliere se farla puzzare o se usarla per concimare. Perdona le parole un po’ forti ma sono esempi che secondo me calzano, calzano e sporcano.
Comunque è chiaro che, se volessi dedicarmi al Sublime, puntare al Sublime, ci dovrei lavorare tanto. Potremmo dire, sicuramente, che c’è del subliminale, nei miei lavori. Un messaggio non lanciato direttamente, quello c’è. Sul Sublime penso di doverci ancora lavorare parecchio. Mi hai dato uno spunto non da poco sul quale lavorare, però penso che ci vorranno anni.
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