“Non esistono oggetti brutti, basta esporli bene». Questo apparente paradosso mostra la presa di distanza dai luoghi comuni, e lo uno sguardo nudo verso ciò che si ha di fronte, dell’Architetto vincitore del Compasso d’Oro, del docente che non voleva trasmettere agli allievi il proprio «stile», ma sollecitare la coscienza delle scelte progettuali e creative di ciascuno.
Franco Albini, Architetto
Franco Albini nasce nel 1905 a Robbiate, in provincia di Como, e lì trascorre l’infanzia ed adolescenza, nella casa di famiglia, acquisendo una sensibilità per le opere dell’uomo e della natura.
Trasferitosi a Milano con la sua famiglia, frequenta il Politecnico, laureandosi nel 1929 ed iniziando ad esercitare la professione di Architetto nello studio diretto da Giò Ponti e da Emilio Lancia e visitando le capitali europee Barcellona e Parigi.
Dopo alcune opere d’arredamento di impronta novecentesca, una conversazione con Edoardo Persico dà il via alla sua «conversione» al razionalismo e all’avvicinamento ai redattori della nota rivista «Casabella».
Franco Albini: le influenze razionaliste e l’interesse per l’edilizia popolare, fino al primo progetto di abitazione, Villa Pestarini
Nel ’31 apre il suo primo Studio d’Architettura a Milano, con Renato Camus e Giancarlo parlanti, occupandosi di edilizia popolare. Partecipa al concorso per il «quartiere Baracca» (1932) e a Milano costruisce i quartieri «Fabio Filzi» (1936-38), «Gabriele D’Annunzio» (1938-40), «Ettore Ponti» (1939).
Queste opere testimoniano l’adesione al metodo progettuale del maestro Walter Gropius.
Col gruppo denominato CIAM elabora due progetti urbani: «Milano Verde» (con la partecipazione di Ignazio Gardella), e «Le quattro città satelliti» (nella periferia di Milano).
Sono influenze ravvisabili anche nel suo primo progetto di abitazione: «Villa Pestarini» (1938) in piazza Tripoli a Milano. Alla fine degli anni Trenta partecipa anche a due concorsi per il noto «quartiere romano dell’ E42»
Franco Albini e gli allestimenti: l’esperienza in Triennale con “Stanza per un uomo”, l’Existenzminimum e gli anni della sperimentazione
Il suo primo allestimento è del ’33: si tratta della Triennale di Milano, in cui progetta, col la collaborazione di Pagano, la «casa a struttura d’acciaio».
Alla Triennale, nel ’36, turbata dall’improvvisa morte di Persico, si consolida un gruppo di giovani architetti, che curano la «Mostra dell’abitazione», per cui Albini presenta l’arredamento di tre alloggi Tipici.
Per la stessa mostra, presenta e allestisce, con Romano, la «Mostra dell’antica oreficeria italiana» e progetta l’iconica «Stanza per un uomo», in cui affronta il tema dell’Existenzminimum, e dell’uomo sportivo (prendendo spunto dall’esperienza personale di alpinista e sciatore).
Negli anni seguenti le fiere e le mostre sono per Albini l’occasione per sperimentare nuove soluzioni (Padiglione Ina, 1934, Fiera del Levante).
In questi anni partorisce la straordinaria invenzione del controsoffitto forato («padiglione della Montecatini», 1940, Fiera Campionaria di Milano, «Mostra di Scipione e degli elementi contemporanei», 1941, Accademia di Brera) e la sperimentazione sul sistema espositivo in serie.
Franco Albini, le opere: il piano regolatore, Casabella, e il processo di composizione e ricomposizione
Negli ultimi anni della Guerra, il gruppo dei Razionalisti milanesi formula «il piano AR» (Architetti Riuniti), una proposta di Piano Regolatore, pubblicato su «Casabella» numero 194, diretto, nel ’46, da Albini stesso, insieme a Palanti.
Nel Dopoguerra, nel ’51, si associa a Franca Helg.
Albini coltiva il suo interesse per l’edilizia popolare utilizzando un processo di composizione/ricomposizione. Abbiamo testimonianza di questo processo nel quartiere «Mangiagalli» (1950-52 a Milano con Gardella), nella «Casa per i lavoratori Incis» (1951-53 a Vitalba, Milano) e nella «Casa per impiegati della Società del Grès» (1954-56 a Colognola, Bergamo).
Nel 1955 vince il «Compasso d’oro» con la sedia Luisa (1955), uno dei più importanti riconoscimenti del settore.
Franco Albini: il rapporto con la tradizione e la sua impronta su Milano
Per quanto riguarda il suo rapporto con la tradizione, per lui non è un «a priori» a cui conformarsi, ma un elemento di coscienza individuale e collettiva, di interpretazione di valori riconosciuti.
Lo dimostra il suo «Albergo-rifugio Pirovano a Cervinia», ma anche l’«Edificio per Uffici Ina-Parma» (1950-54), gli «Uffici comunali di Genova», e, infine, la «Rinascente a Roma» (1957-61), la cui struttura in ferro e la corrugazione dinamica richiamano la scansione dei vicini palazzi rinascimentali.
Su Milano, la sua impronta è quindi tardiva.
Nelle sue «Stazioni della Linea 1 della Metropolitana Milanese» (1962-63), i dettagli (tra cui spicca il corrimano in ferro), i pannelli prefabbricati e i colori sono elementi identificativi di immediata riconoscibilità.
Genova: la città d’elezione di Franco Albini
Nonostante sia lombardo, la sua città di elezione è invece Genova, che gli dona l’opportunità di intervenire su varie scale: da quella urbanistica (tramite il «quartiere Angeli», 1946, il «quartiere di Piccapietra», 1950, il «Piano Regolatore Generale», 1948, e il «sistemazione della Valletta Cambiaso», 1955) a quella edilizia (il rinnovo dei musei di «Palazzo Bianco», 1949-51 e di «Palazzo Rosso», 1952-62).
Tra il 1963 e il 1979 lo studio Albini-Helg progetta il restauro del «convento di Sant’Agostino» destinato ad essere il nuovo Museo Archeologico Lapideo.
In questi anni lo studio si associa con Antonio Piva e con Marco Albini.
Progettazione museale e la concezione “educativa” del museo
I musei di Albini innovano profondamente le tecniche espositive e le attrezzature perseguendo una concezione educativa del museo, che integra antico e moderno, e dove il museo stesso diventa opera d’arte.
In questi allestimenti di interni è riconoscibile la maestria di Franco Albini nel creare spazi emozionali, sia che esprimano una rarefazione di elementi in un’atmosfera sospesa («Palazzo Bianco»), sia che facciano riferimento a lontani archetipi («San Lorenzo»).
Tra i progetti di Musei vanno ricordati: il «Museo greco-romano» (1965 ad Alessandria d’Egitto) e il «Chiostro degli Eremitani» (1969-79 a Padova).
L’attività di docente di Franco Albini e il suo metodo didattico
Nell’ultimo scorcio dell’attività di Albini si rileva una cristallizzazione del linguaggio in formule compositive già sperimentate. Ciò è ravvisabile soprattutto negli Uffici della SNAM (1969-74 a San Donato Milanese).
L’attività di docente universitario di Franco Albini di esplica in un arco temporale di circa trent’ anni. Dal 1949 al 1964 insegna all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia IUAV (con un trasferimento per un solo anno al Politecnico di Torino), per poi trasferirsi al Politecnico di Milano.
Nell’insegnamento egli trasmette gli stessi principi che fondano la sua professione di architetto.
Era convinto che non bisognasse trasmettere agli allievi il proprio «stile». Albini utilizza un metodo didattico fondato su ripetuti «perché», volti a sollecitare nel discente la coscienza delle proprie scelte progettuali, e intervenendo raramente sui disegni degli studenti e sempre e solo al margine.
La genesi del progetto albiniano
Muore nel 1977 a Milano. Il progetto albiniano nasce dalla definizione in pianta apparentemente semplice, ma il realtà complessa. Molti prospetti non sono concepibili se non preceduti da un’idea precisa in pianta. Allo studio della pianta segue quello della sezione e quindi dello spazio. Sono ammesse alcune “eccezioni”: gli specchi, gli elementi sospesi, in movimento, le trasparenze.
Franco Albini sosteneva che «non esistono oggetti brutti, basta esporli bene». Questa frase, apparentemente paradossale, mostra la sua presa di distanza dai luoghi comuni, un atteggiamento che esclude ogni preclusione verso la realtà, uno sguardo nudo e senza preconcetti verso ciò che si ha di fronte.
Franco Albini: il progettista come il regista e l’importanza del disegno tecnico
Il corpus dei disegni di progetto di Franco Albini ci informa del costante e quasi maniacale tentativo di controllare la realtà del progetto attraverso un enorme numero di elaborati esecutivi che indagano il progetto: prassi che tenta di garantire un’esecuzione perfetta per mezzo dello strumento del disegno.
La concezione albiniana della progettazione non è paragonabile a quella di un «regista», che genera un’idea e delega, successivamente, a specialisti la realizzazione del prodotto finale.
Egli è un artigiano che controlla ogni singola parte e la successione degli atti progettuali: dalla concezione dell’idea generale, attraverso la sua travagliata elaborazione, alla ricerca tecnica e tecnologica, allo studio di ogni parte dell’opera sino alla sua esecuzione.
BIBLIOGRAFIA (libri)
F. Rossi Prodi, Franco Albini, Officina Edizioni (Roma 1996)
A. Piva, V. Prina, Franco Albini 1905-1977, Electa, Milano 1998
F. Bucci, A. Rossari (a cura di), I musei e gli allestimenti di Franco Albini, Electa (Milano 2005)
F. Bucci, F. Irace (a cura di), Zero Gravity, Franco Albini, Costruire le modernità, TriennaleElecta (Milano 2006)
BIBLIOGRAFIA (riviste)
F. Helg, Testimonianza su Franco Albini, in «L’Architettura, cronache e storia», n. 288, ottobre 1979, pp. 551-601
M. Mulazzani, Franco Albini, l’irripetibilità della tradizione, in «Casabella», n. 695-696, ……….. 2002, pp. 157-167
A. Rossari, Franco Albini, l’arte del porgere, in «Casabella», n. 730, ……… 2005, pp. 4-15
F. Bucci, Franco Albini, lezioni di un’architettura, in «D’A. D’architettura», n. 27, ………… 2005, pp. 62-69
falcioni giovanni domenico
Giovanni Domenico Falcioni
Ho letto l’articolo collegato a “il sublimista.it”
Belle le foto raffiguranti l’architetto.
Importanti anche le illustrazioni di alcune opere architettoniche e dei musei, devono sempre abbondare perchè si comprende subito ciò di cui si parla.
“Non esistono oggetti brutti, basta esporli bene»
Questo aforisma di Franco Albini è convincente e per nulla paradossale, a ben rifletterci.
Io stesso mi sono abituato a due quadri astratti, inizialmente gradevoli, ma poco assimilabili; avuti in regalo, nel lontano 1972 di G. Puccini, ne allego le foto appena fatte, ora, direttamente dalla parete ove li ho collocati, alcuni anni fa, in una sala della mia abitazione di campagna.
Ebbene, spostati di dimora in dimora, mi sono piaciuti sempre più e, quelle forme strane, sono divenute immagini familiari, collegate al mio inconscio… come dire emozioni indefinibili, ora rappresentanti qualcosa, ora qualcos’altra ma sempre legate a me.
In questo consiste l’arte moderna, penso: non si guarda per analizzarla, si lascia lì, in mostra, sarà lei, col tempo, a dire qualcosa a ciascuno di noi.
Non vanno cercate similitudini, ne sensazioni da condividere con altri, perchè saranno sempre diverse, inutile cercare somiglianze, ciascuno deve elaborarle in proprio, per scoprire qualcosa di nuovo in se, magari un ricordo.
Come dire… a ciò che apparentemente sembra brutto, di primo acchito, va data la possibilità di rendersi bello, col tempo, ma serve il contatto quotidiano con quell’opera ed essa opererà su di noi.
L’artista non vuole comunicare nulla di preciso, o forse sì, ma noi non lo sappiamo. Egli esprime se stesso, sta a noi congiungere l’opera con noi stessi.
Ogni opera è unica, ma cangiante di anno in anno, per colui che la possiede.